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Arturo Cappè

Dalla malinconia e dalla solitudine di un giorno senza scampo nasce la ricerca psichedelica — nel senso etimologico del termine greco psykhḗ-délos, ovvero “rendere evidente l’anima” — di Arturo Cappè, nato il 10 settembre 1986.

Come non pensare di poter ricominciare da sé stessi, se non attraverso il processo umano e incessante di cercare ciò che è già presente ovunque, dentro di noi e nel mondo? Da questa tensione prende forma un’indagine artistica che si nutre della ruvida essenza di chi ama le altezze, cresciuto tra le vertiginose realtà delle Alpi Apuane. È qui che affiora un primordiale senso dell’immagine, una visione del reale filtrata dallo sguardo di un “saggio selvaggio bambino eterno”, che esprime una prospettiva fuori dal tempo.

Le opere concepite e realizzate da Cappè sembrano animate dallo stesso spirito che abitava Ligabue o Van Gogh: una tensione verso l’esaltazione assoluta della vita, in ogni suo aspetto — tragico, gioioso, deprecabile, segreto o palese come il sole di giugno su un campo di fiori prossimo a essere reciso.

La tecnica è rude, ma guidata da un’inconscia precisione compositiva che si muove tra l’antico sentire tribale e la struttura tecnica del linguaggio moderno — nel paesaggio come nello still life. Le sue opere tracciano così un ponte temporale sempre percorribile, dove la pittura diventa esperienza dell’uomo, dalla nascita del pittogramma alla pubblicità contemporanea.

Senza voler indorare troppo la pillola narrativa, vi invitiamo a ribattezzarvi alla visione: come avrebbe detto Aldous Huxley parafrasando William Blake, è attraverso le immagini che parlano per simboli — e non per tempo — che si può giungere al cuore.